Riassunto
Un approfondimento in vista del Giorno della Memoria del 27 gennaio, con ampi riferimenti bibliografici e cinematografici. «Tra le tante “giornate di qualcosa” che da allora hanno preso piede – scrive Andrea Pancaldi -, quella della “Shoah” è senz’altro quella che ha inciso culturalmente di più, innescando riflessioni, letture, produzioni culturali e storiche, anche riflessioni e autoriflessioni su chi, di quell’innominabile massacro, fu, poco o molto, complice dei nazisti. Senza dimenticare mai che nei forni nazisti finirono anche tanti zingari, malati mentali e persone con disabilità»
Il 27 gennaio e il relativo Giorno della Memoria si avvicinano. Tra le tante “giornate di qualcosa” che da allora hanno preso piede, finendo molte per passare totalmente inosservate e, come tutte le cose inflazionate, rischiare di far perdere di senso il tema della memoria, quella della Shoah è senz’altro quella che ha inciso culturalmente di più, innescando riflessioni, letture, produzioni culturali e storiche, anche riflessioni e autoriflessioni su chi, di quell’innominabile massacro, fu, poco o molto, complice dei nazisti. Si pensi, tre le tante cose che si possono ricordare, alle leggi antirazziali italiane (1), al collaborazionismo francese (2), all’antisemitismo e ai relativi “pogrom” in diversi Paesi dell’Est prima e durante la seconda guerra mondiale.
Per molti anni ho avuto una certa insofferenza verso la tesi della Comunità ebraica di “non contaminare” quella giornata con altre (legittime) memorie, in nome dell’unicità della vicenda della Shoah. Poi, col tempo, mi pare che questo mio sentire si sia relativizzato, ma non saprei dirne bene il perché. Forse vicende personali che mi fanno “ricercare” (anche proprio dentro ad archivi) brandelli di memoria di due nonni mai conosciuti né citati in famiglia, compartecipi delle vicende degli anni del fascismo e della guerra. Uno antifascista negli Anni Venti-Trenta e una morta nei primi Anni Quaranta, dopo anni di degenza in un sanatorio causa la tubercolosi che era largamente diffusa in quegli anni (3).
Tra memoria e sociale
Per chi come me ha lavorato e lavora nel sociale l’universo concentrazionario nazista non può non fare da specchio per certi versi, e ovviamente con le dovute proporzioni, alle carceri, ai manicomi, agli istituti, ai sanatori, ai ghetti sociali… non dimenticandoci che nei forni nazisti finirono anche zingari (4), malati mentali e persone con disabilità (5).
Sempre in tema di disabilità, più recentemente ho pensato, senza alcun intento polemico, come mai fossero state nominate nell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, quali “associazioni tra le più rappresentative dell’area della disabilità”, anche l’ANVCG, l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra e l’ANMIG, l’Associazione Nazionale Mutilati Invalidi di Guerra. Sono passati ormai 80 anni dalla fine della guerra e mi sono chiesto quante fossero ancora viventi delle persone rimaste invalide, come militari, partigiani o come civili per cause belliche (o negli anni immediatamente successivi per esplosioni di residuati), da giustificare quel «maggiormente rappresentative». Anche i dati raccolti su un precedente articolo di «Superando.it» del 2017, e forniti dalle stesse Associazioni, delineavano un’inevitabile parabola sempre più decrescente di persone con disabilità tra gli associati (6).
L’interrogativo rimane per lo specifico della disabilità, nel senso che quelle associazioni sicuramente tutelano una parte residuale di persone con disabilità molto anziane, quasi centenarie, se pensiamo a militari o partigiani, ma soprattutto immagino gli aspetti previdenziali delle relative vedove e orfani o comunque “aventi diritto”, oltre ad incarnare indubbiamente una forte eredità storica, se anche questa contribuisce a definire il concetto di rappresentanza, così come è stato definito e/o lo si interpreta.
Ma non solo: ho scoperto che sono ancora aperti nel 2024 i contenziosi per i risarcimenti dei «danni subìti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità dalle forze del Terzo Reich» (7) e come l’effetto “armadio della vergogna” (8) (non entriamo qui nel merito per brevità, rimandando alla nota), governi ancora le relazioni politiche tra le nazioni e relative tempistiche delle agende, come illustra bene Paolo Caroli nel suo articolo Crimini tedeschi e soldi italiani?, pubblicato dal sito legislazionepenale.eu (9). Come si vede, il confine che mettiamo tra ciò che ascriviamo all’àmbito della memoria e all’àmbito della cronaca, in alcuni aspetti tende molto a sfumare, anche temporalmente.
Tornando al tema memoria… un tema complicato, da maneggiare con cura, che ti fa sentire ripetutamente inadeguato e “piccolo”, anche pericoloso per il rischio di proiettarci dentro, senza rifletterci, angosce e lutti di altra natura. Nel caso della disabilità ce le ricordano bene le parole che scrisse Andrea Canevaro (10), sollecitato anche dal diffondersi in tutto l’àmbito della disabilità di iniziative riferite al programma Aktion T4” dei nazisti, negli Anni Trenta, circa l’eutanasia delle persone con disabilità.
Che fare allora… per non limitarsi a vedere per la quarta volta Schindler’s List o Il pianista?
Premesso che i due film citati offrono sempre nuove sollecitazioni… che fare allora? Essere (semplici?) fruitori di libri e film? Leggersi qualche saggio di taglio educativo o biblioteconomico che affronta il tema del senso della memoria? Riflettere sulle proprie tracce di memorie familiari o personali? Iscriversi ad uno dei tanti corsi/seminari in materia (11)? Non saprei dire… tutte cose utili e interessanti. Mi viene da dire più che interrogare la memoria, lasciarsi interrogare da questa.
Per non intasare dunque il tanto che verrà prodotto il 27 gennaio prossimo, oltre alle varie cose già citate in nota, aggiungo alcuni altri suggerimenti per chi non li conoscesse.
Sulla Shoah due film poco conosciuti che in bianco e nero rendono crudamente il tema:
– Andremo in città, film di Nelo Risi del 1966, tratto da un romanzo di Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz.
– La passeggera (Pasażerka), film postumo di Andrzej Munk, 1961 (edizione integrale disponibile online solo in polacco con sottotitoli francesi, a questo link).
Altro tema legato alla memoria completamente dimenticato (…anzi volutamente nascosto) nella memoria pubblica nostrana è quello dei crimini di guerra italiani in Africa, dapprima, e nei Balcani poi, durante la seconda guerra mondiale. Furono circa 2.000 i criminali di guerra identificati dagli Alleati e dai Paesi aggrediti, mai nessuno fu estradato né processato.
Sul clima di contorno, invece, che i film sul mito del “buon soldato italiano” (Mediterraneo, Il mandolino del capitano Corelli… e il vecchio Italiani brava gente) è interessante vedere, circa le vicende rispettivamente accadute in Grecia, Etiopia e Libia, Le soldatesse di Valerio Zurlini (1967), Tempo di uccidere di Giuliano Montaldo (1989), tratto dal romanzo di Ennio Flaiano e Il leone del deserto di Mustafa Akkad (1980).
Sullo specifico dei crimini, infine, i documentari Fascist Legacy (BBC, 1989), La guerra sporca di Mussolini (Giovanni Donfrancesco, 2008) e Debre Libanos (Antonello Carvigiani, docufilm a cura di TV2000, 2017).
Rimandiamo infine al lungo elenco di film presente a questo link.
Negli ultimi anni, oltre ad un forte sviluppo della ricerca storica, si possono segnalare l’avvio anche di alcuni siti web specializzati, come Crimini di guerra, A ferro e fuoco. L’occuopazione italiana della Jugoslavia 1941-1943 e I campi fascisti, pur rimandando il dibattito limitato a ristretti circuiti di storici, non essendo all’epoca, per motivi diversi, nessuna parte politica, né la destra, né il centro, né la sinistra, interessata e disponibile a metter mano a questi temi. Atteggiamento rimasto sostanzialmente abbastanza immutato, pur con alcune lodevoli eccezioni, come dimostrano le varie commissioni di inchiesta/studio più volte annunciate e mai concretatesi e le ricorrenti polemiche che ricominciano ogni volta da capo, attorno a quanto successe sul fronte italo/jugoslavo, sospeso tra esodi, foibe, crimini fascisti e dove il “nazi infame” (come canta Francesco Guccini) qui non può essere speso per tacitare tutto. Circa la bibliografia, almeno una cinquantina i volumi usciti in Italia negli Anni Duemila, le ultime cose edite sono segnalate in nota (12).
Se proprio non avete tempo o voglia né per film né per libri, non sfuggite alle inevitabili inquietudini che ci restituiscono le cronache di questi ultimi mesi in termini di massacri, e dedicate almeno venti minuti a leggervi il saggio di Virginio Ilari (13) che tra dati ed echi di pellicole inquadra molto bene e con un linguaggio divulgativo il tema.
Incamminarsi nelle vicende di queste memorie non è di tutto riposo e lascia molte domande senza risposta. Anche qui chi lavora nel sociale trova elementi di familiarità e richiami a ciò che possa essere considerato o meno come un dovere civile.
Il presente articolo è uscito per la prima volta sul blog “Una certa idea di…” dell’Istituzione Gian Franco Minguzzi della Città Metropolitana di Bologna. Lo si ripropone qui per gentile concessione con alcune modifiche e integrazioni.
di Andrea Pancaldi